Diego Gabutti su «ItaliaOggi» 24 maggio 2025

La storica dell’arte Silvia Tomasi nel labirinto dell’arte moderna

Ci sono due modi di leggere un’opera d’arte (anzi ce ne sono di più, ma restiamo a due). Primo modo: guardarla appesa al muro, oppure esposta al centro d’una stanza, assistere all’evento artistico (o al video che lo registra postato su You- Tube) in caso di performance, o anche soltanto studiarsela su un catalogo, ma comunque de visu, senza intermediari. Secondo modo: fare a meno dell’esperienza diretta delle opere e ascoltare chi ne parla, ci ragiona intorno, le descrive e commenta, le porta a espressione, le inserisce in un quadro storico e culturale e finanche metafisico più vasto e tentacoluto, ne indaga le connessioni con la realtà, salta o meglio scivola dall’una all’altra con eleganza, come in una successione di stacchi al ralenti e di vellutate dissolvenze cinematografiche. È quel che fa Silvia Tomasi nel suo I figli di Aracne: l’arte moderna come «rete», ragnatela la trama d’un arazzo in divenire, composto di singole opere come i puzzle sono composti di tasselli che lì per lì, prima d’incastrarsi in un disegno generale e coerente, sono apolidi e privi di significato. Tomasi passa in rassegna l’arte moderna, le sue geografie tortuose, i suoi simbolismi oscuri e/ trasparenti, la sua drammaturgia concettosa: ogni opera s’intreccia con ogni altra e, tutte insieme, danno luogo a una sorta di realtà seconda, magari sfigurata e bizzarra (o meglio imbizzarrita) e non di meno perfettamente riconoscibile, assai meno astratta di quanto s’intenda, in giro per gallerie e musei, con «arte astratta», sempre che ancora si dica così (l’arte è infatti stata sempre «astratta», quando più, quando meno, e allora meglio dire «arte» e basta).

Catalogo di opere note e incognite, opere che spaziano per ogni dove, carambolando e cozzando tra loro come palle di biliardo sul tappetino verde della storia e della geografia, I figli di Aracne è una didascalia iperbolica, a tratti anche un martellante apparato di note, a ulteriore illustrazione delle mappe di questo e d’altri mondi. Mappe e «reti» sono i territori che il libro esplora con massima cognizione di causa. È una rete e una mappa lo stesso libro. È il corrispettivo saggistico della «cartina geografica di Paul Eluard (Le Monde au Temps des Surrealistes, 1929)» che ridisegnava la dimensione, oltre che il come e il perché, delle nazioni sub specie utopia d’epoca terzinternazionalista. È anche il riflesso nello specchio deformante della critica d’arte della mappa della metro di New York concepita nel 1996 da Claes Oldenburg («Soft Manhattan- Subway map: “scultura” morbida e tenera, come carne palpitante; la forma è quella d’un quarto di bue sugoso, appesa come una tenda cicciosa »).

Mappe, reti e ragnatele: I figli di Aracne, che per il suo titolo è in debito col mito d’Aracne, che sfidò Atena in una gara di tessitura e per la sua hybris fu trasformata in ragno e condannata a tessere in eterno, è a sua volta soprattutto un tessere e filare relazioni tra le opere, gli artisti, il pubblico attento e quello distratto, il passato e futuro dell’arte, le sue talvolta orrende metamorfosi. Mestiere pericoloso, quello del tessitore di ragnatele, che Tomasi affresca in ogni particolare pittorico e letterario, eppure mestiere o gioco, assolutamente necessario, se ci si vuole emancipare dal mito, e trovare una strada da percorrere, sicura o anche solo presunta, tra gl’inciampi del mondo.

DIEGO GABUTTI